Campagne anti-immigrati, marce su Roma (ce ne sono almeno 2 nel calendario di settembre, come se si trattasse di partite di champions), lampi atomici sul pianeta ecc. ecc. Tutte cose da prendere “estremamente” sul serio, perché è qui e ora che si manifestano, che accadono. Tuttavia è difficile togliersi di dosso la sensazione che tutto questo “reale” sia impastato anche di una certa dose di folclore “archeologico” (cfr. il fascismo archeologico di cui parlava Pasolini). Insomma l’impressione è che la gente, almeno implicitamente, sappia fare la differenza tra i vecchi stereotipi (per es. il manifesto anti-immigrati che si veste con la grafica vintage degli anni 30) e il contesto nuovo, attuale, nel quale sono riproposti – probabilmente ad arte, magari un’arte ancora una volta implicita o inconsapevole (non è questo in fondo il mestiere dei pubblicitari? ). Insomma l”impressione è che la gente sappia, e che quindi faccia sempre, e bene, la differenza tra il vecchio e il nuovo. E che in qualche modo stia al gioco della loro commistione. Allora la domanda potrebbe essere: perché oggi un certo folclore archeologico (razzista e fascista) fa vendere così bene? E che cosa si vende “in realtà” attraverso la riproposizione di tutta quest’archeologia?
Infatti, per vendere qualcosa, è sempre necessario fare leva su quello che qui e ora tocca la pancia della gente, come si suol dire. Per es., quando Robespierre faceva indossare ai suoi concittadini gli abiti dell’antica Roma, in realtà era un certo divenire rivoluzionario della “sua” Francia che provava a sollecitare, a intensificare. Walter Benjamin aveva una visione molto acuta della “moda”, tanto acuta da apparire paradossale. La moda non è il fiuto per il nuovo che arriva, una sorta di piede sgusciato furtivamente nel futuro. Al contrario, la moda è una percezione così vivida del presente da permettere di andare a cercare – con un “balzo di tigre” diceva Benjamin – nel passato, i modelli che possano rendere il presente stesso più elettrico (quindi anche più seducente, più vendibile). In fondo è sempre un certo “oggi” che si vende. Facciamo allora un’ipotesi: e se oggi quello che si vende, quello che rende tutta una serie di prodotti politici e culturali vendibili, insomma se l’anima del commercio non fosse la mera riproposizione del razzismo e del fascismo d’antan? In altri termini, su cosa fa leva oggi il marketing che si veste d’antico?
Per rispondere a questa domanda bisognerebbe aprire un grande cantiere di riflessione (e di azione). Limitiamoci a proporre altre ipotetiche domande: e se, per esempio, dietro il prodotto “sovranismo” (c’è qualcosa di più chiaramente e più dichiaratamente archeologico della “sovranità”?) si vendesse in realtà soprattutto paranoia? Se fosse insomma la paranoia a parlare oggi alla pancia della gente attraverso tutta una serie di prodotti più o meno anticheggianti? E perché la gente avrebbe oggi voglia di paranoia? Perché si precipiterebbe sugli scaffali a comprare i prodotti che hanno una sostanziosa percentuale di paranoia nella loro composizione? Perché, e come, oggi ci troveremmo a desiderare paranoicamente il mondo? Insieme alla paranoia, l’altra grande fonte di marketing attuale potrebbe essere l’ubuesco (cfr. Ubu re di Jarry). Perché oggi più è grottesco e più lo voglio? Perché più è grottesco e più mi attira, più mi piace, più lo compro? Perché ci troveremmo a desiderare ubuescamente il mondo? Il presidente USA incarna probabilmente questi due grandi capitali del marketing politico e culturale attuale. Ma non facciamoci ingannare: i problemi sono seri quando riguardano tutti, in forme diverse, non solo i potenti. E pensare che oggi ci sia un’atmosfera che tende a intensificare nel mondo la paranoia e l’ubuesco, e che questa intensificazione passi attraverso il nostro stesso desiderio, non può che rendere la questione del razzismo e del fascismo attuali più problematica e più seria.