A causa della composizione eterogenea di Action30 – aspetto per nulla accidentale o secondario, trattandosi di un gruppo di per sé magmatico o informe, dove gli studiosi lavorano a fianco a fianco con i creativi – la ricerca si lega a filo doppio con una dimensione pratica, sperimentale. Riflettere significa dotarsi di un “sismografo sensibilissimo”, per riprendere l’espressione di Aby Warburg, che consenta di percepire la “catastrofe” del presente, e di muoversi in tale paesaggio intervenendo in modo performativo su di esso, nel tentativo di resistere alla sua onda d’urto ed eventualmente di modificarlo, di biforcarlo in altre direzioni possibili. Il tavolo da lavoro di Action30 è quindi al tempo stesso concettuale e sensoriale, critico e creativo. La riflessione si dispiega costantemente in una dimensione performativa; la performatività si ripiega sempre in una dimensione riflessiva. Nel corso degli anni, il tavolo da lavoro del collettivo si è organizzato intorno ad alcune ipotesi di ricerca, connesse fra loro e tali da formare una sorta di mosaico o di costellazione problematica.
Vecchio e nuovo fascismo
Tutto è nato da una sensazione: e se stessimo vivendo una strana riedizione degli anni ’30? Quest’ipotesi – che all’epoca poteva apparire un po’ scabrosa, mentre oggi, soprattutto dopo la crisi economica esplosa nel 2008, sembra quasi un banale ritornello – è stato l’elemento intorno al quale il gruppo si è raccolto. Gli anni ’30 alludevano ovviamente alla crisi della democrazia e all’avvento dei regimi fascisti in Europa. Dinanzi all’eventualità che una simile situazione potesse ripresentarsi, era chiaro che bisognasse fare qualcosa, mobilitarsi in qualche modo. Da qui il richiamo all’azione, che il collettivo porta scritto nel suo nome. L’indagine sul rapporto tra “vecchio” e “nuovo” fascismo ha innervato il lavoro del collettivo, ed è sfociata in un volume nel quale i ricercatori hanno convocato una serie di autori, assemblati come se si trattasse di una cassetta degli attrezzi e interrogati sulla base dei loro personali background culturali.
L’invasione dei supernormali
La mobilitazione del collettivo ha assunto subito l’aspetto di una macchina analogica. L’analogia non è, banalmente, una ricerca delle somiglianze. Si tratta piuttosto di una ricerca che, facendo leva sulle somiglianze, cerca di far emergere le differenze. In che cosa le attuali forme di razzismo e di fascismo si distinguono da quelle del passato? La ricerca sul vecchio e nuovo fascismo si è perciò sviluppata parallelamente a una riflessione sull’uomo nuovo neoliberale. Operando un aggiornamento delle Mythologies di Roland Barthes (1957), il collettivo ha provato a far funzionare il proprio sismografo attraverso un’indagine, al tempo stesso critica e performativa, sui “nuovi miti d’oggi”. Dai supereroi con superproblemi al Dr House, dagli sportivi modello all’everyman come modello sociale, dalla galassia dei reality alla cultura-spettacolo, la nuova configurazione antropologica è stata osservata attraverso le lenti di una fenomenologia della “supernormalità”.
La vita ai tempi del reality
Procedendo in questa direzione, la ricerca si è infine focalizzata sulla condizione dell’uomo contemporaneo, immerso in un oceano mediatico nel quale la realtà non si distingue più dal suo spettacolo. Una confusione che rischia di dissolvere le opposizioni sulle quali il nostro tradizionale modo di pensare e di agire è fondato – vero e falso, bene e male, giusto e ingiusto, pubblico e privato ecc. – e che potrebbe quindi costituire uno degli aspetti della catastrofe antropologica cui, sin dall’inizio, il collettivo ha cercato di essere sensibile e di reagire. In tal senso, lungi dall’essere un semplice format televisivo, il reality show – lo “spettacolo della realtà” – potrebbe definire una nuova condizione dell’essere al mondo. Riprendendo ma anche superando i classici studi sulla “società dello spettacolo”, il collettivo ha cercato di aggiungere un tassello alle analisi del potere moderno inaugurate da Michel Foucault. La biopolitica neoliberale, oltre a investire la dimensione biologica ed economica della vita umana, ha una connotazione “bio-mediatica”, consistente nella messa in spettacolo industriale e permanente della vita quotidiana. Durante l’esilio, Bertolt Brecht sentì l’esigenza di realizzare un Abicì della guerra, scomponendo la poltiglia mediatica attraverso cui il conflitto si offriva alla gente, e ricomponendone la tragica realtà attraverso la forma ibrida dei “fotoepigrammi”. Potremmo allora chiederci se l’abc della realtà non costituisca oggi il compito cui siamo chiamati, e se questo costante lavoro di smontaggio e rimontaggio del blob mediatico-esistenziale nel quale siamo immersi, non sia un elemento essenziale dell’odierno “antifascismo”.