Forse cominciamo ad accorgerci che il nuovo populismo non è un fenomeno essenzialmente “politico”, come per molto tempo si è ritenuto, ma va invece considerato da un punto di vista più ampio che concerne la cultura in generale e investe la stessa dimensione antropologica. Ce ne accorgiamo perché la crisi delle forme di “intermediazione” – istituzionali, politiche, scientifiche, artistiche ecc. – sembra arrivata a un punto di non ritorno e in ogni caso tocca ormai direttamente e in profondità i diretti interessati. Sempre più spesso si possono ascoltare per esempio medici o giornalisti che denunciano la crisi del riconoscimento sociale del loro ruolo professionale, a fronte della capacità, di cui è investito l’uomo comune, di avere “immediatamente” accesso alla realtà nelle sue diverse forme e manifestazioni. Insomma, ogni “verità” che sia filtrata da un’istanza d’intermediazione, tende oggi a perdere valore e a diventare persino oggetto di esplicita contestazione: sia perché le forme tradizionali di “autorità” non sono più considerate di per sé legittime, sia perché questa mancanza di legittimità è spesso accompagnata dal sospetto di una loro intrinseca collusione con le varie espressioni del “potere”.
Nel tentativo di confrontarsi con le nuove forme di fascismo e di razzismo, il collettivo Action30 ha sin dall’inizio cercato di mettere in luce la filigrana antropologica e culturale che le innervava, rovesciando così il punto di vista abituale: il nuovo populismo – considerato come fenomeno culturale e antropologico – può servirci da bussola per comprendere alcuni fenomeni politici, e non viceversa. Riprendendo e aggiornando la ricerca sui Miti d’oggi di Roland Barthes, il collettivo ha così sviluppato un’indagine a 360° sull’uomo neoliberale: ne e è scaturita una sorta di fenomenologia della “supernormalità”, considerata come elemento portante della nuova configurazione antropologica con cui oggi dovremmo fare i conti, sia sul piano della riflessione critica, sia su quello delle pratiche culturali e politiche.
Per tutte queste ragioni, nella particolare congiuntura politica in cui ci troviamo oggi in Italia, è parso utile riproporre un testo scritto nel 2014, a ridosso di un evento di cronaca che fece un certo scalpore (da allora si sono verificati altri eventi analoghi): un’addetta alle pulizie gettò nella spazzatura delle opere d’arte dopo averle scambiate per rifiuti. Il gesto fu interpretato in due modi opposti e speculari , ossia da un lato come conferma di una deriva dell’arte contemporanea che avrebbe smarrito il senso dell’autorità e dell’intermediazione (: chiunque può autolegittimarsi come artista, proponendo anche la “spazzatura” come arte), dall’altro come il momento felice in cui l’arte, emancipandosi da ogni tipo di tutela e mediazione, si mostra finalmente in grado di diventare una pratica diffusa e popolare (: il vero atto artistico è quello della signora che ha cestinato le opere d’arte, mostrando che l’arte può avere un destino che insieme la nega e la fa rinascere trasfigurata) .
Il testo qui riportato può essere quindi letto come una sorta di foto o di cartolina che ci giunge dal (recente) passato: pur non parlando direttamente di politica, sono infatti facilmente riconoscibili alcuni profili politici che, in quel momento storico, cominciavano il loro percorso istituzionale, e che oggi sembrano arrivati all’apice della loro carriera. Soprattutto, questi protagonisti della vita politica italiana degli ultimi anni potranno essere qui osservati sotto luce diversa. Una luce che, lungi dall’appartenere loro in modo esclusivo, potrebbe illuminare ciascuno di noi o comunque il mondo “comune” nel quale viviamo.
Buona lettura.
La femme de ménage e le scarpe del papa. Arte, non arte, oltre-arte nell’epoca del reality
di Pierangelo Di Vittorio
Un giorno o l’altro la polvere, che persevera, comincerà probabilmente ad avere il sopravvento sulle donne delle pulizie, invadendo con immense macerie gli edifici abbandonati, i magazzini deserti: in quest’epoca lontana, non vi sarà più niente che salvi dai terrori notturni, in mancanza dei quali siamo diventati dei perfetti ragionieri.
Georges Bataille, Poussière (1929).
Una donna delle pulizie ha cestinato alcune opere d’arte, confondendole con la spazzatura che aveva l’incarico di rimuovere dal luogo della mostra in cui le opere stesse erano esposte. Il “fatto” sembra qui coincidere con la “notizia” che qualche ora dopo, diffondendosi in modo virale attraverso i media e i social network, ne avrebbe fatto parlare a profusione: Scambiate per rifiuti, le opere in mostra finiscono direttamente nella discarica (La Repubblica, Bari 19 febbraio 2014). Inutile dire che, tra il fatto e la notizia, una differenza esiste, tuttavia la sensazione di trasparenza è irresistibile. Pare che le cose parlino da sole, che non ci sia nulla da aggiungere, come se tutto fosse sin dall’inizio scritto (o iscritto) in esse.
Il gesto della signora Anna Macchi appartiene a quel tipo di eventi che, nell’attuale configurazione giornalistico-mediatica, possiedono l’aura dello scoop in sé. Il primo merito della protagonista della vicenda sembra insomma di avere al tempo stesso “fatto” e “scritto” la notizia. Notizia nell’accezione più forte del termine, ossia nel senso della produzione dell’attualità. Se c’è una “grandezza” in questo gesto, è prima di tutto di offrire una rappresentazione immediata – immediatamente attuale e quindi incarnata – dello spirito del tempo. È un po’ come la visione hegeliana dello spirito che avanza a cavallo, anche se al posto di Napoleone c’è una femme de ménage, il cavallo si è trasformato in una scopa e lo spirito dell’arte galoppa verso la discarica.
Il gesto della donna delle pulizie ha un indiscutibile appeal. Seduce. Conduce fuori di sé e trascina con sé. Produce una specie di estasi diabolica. Ma precisamente, come il diavolo di Cazotte che fa irrompere nel corso abituale dell’esistenza la domanda “che vuoi?”, tocca corde profonde che mobilitano il soggetto che gli sta di fronte. Come in una seduta d’ipnosi, porta dove abbiamo già voglia di andare, o dove forse in qualche modo già ci troviamo. Il fatto di aver gettato l’arte nella spazzatura funziona insomma come una sorta di lapsus collettivo che, da un lato manifesta il nostro “desiderio”, dall’altro pone il problema delle condizioni della “verità” nel mondo contemporaneo. Non c’è da stupirsi allora che la notizia sia rimbalzata in tutto il mondo, che l’intervista alla donna delle pulizie sia stata vista da migliaia di persone, e che le sia stato persino proposto di girare uno spot istituzionale sul decoro urbano. In altri termini, il gesto conteneva virtualmente un grosso capitale mediatico che, appena reso disponibile, è stato reinvestito nelle maniere più diverse.
Perché è chiaro che il desiderio, come tutto quello che possiamo designare con il termine verità (e che per esistere ha bisogno di quel supplemento che i greci chiamavano techne: arte e tecnica ma anche sapere), trovano oggi le loro condizioni di possibilità nella stessa configurazione giornalistico-mediatica cui appartiene il gesto che la sollecita. La domanda “che vuoi?” è sempre posta all’interno dell’oceano mediatico in cui nuotiamo come pesci, e s’intreccia quindi con tutte le ingiunzioni del marketing, della pubblicità ecc. Allo stesso modo la “verità” – la manifestazione della realtà resa possibile grazie alla mediazione dell’arte, del sapere o del linguaggio – sembra oggi avere bisogno di un ulteriore supplemento di spettacolo, per produrre il consenso che la fa esistere. La nostra vita quotidiana è mediatizzata alla fonte e in modo industriale. La realtà esiste come spettacolo della realtà (come reality show), e anche il diavolo, se vuole continuare a fare il suo mestiere, dovrà tenerne conto.
In ogni caso, si può ipotizzare che il “passaggio all’atto” della signora Macchi abbia liberato fantasmi e pulsioni latenti che si agitano nel corpo sociale. Certo, avendo investito un campo specifico quale è l’arte, può servire per continuare a interrogarsi sullo statuto, il senso e le condizioni di questa particolare forma di attività umana. Al tempo stesso però potrebbe essere anche l’occasione per interrogarsi sulle reazioni immediate che questo gesto ha suscitato, e che potrebbero essere l’espressione di tendenze più generali che attraversano lo spazio sociale. È nell’ottica di una sorta di “autoanalisi” di queste tendenze, inconsce o irriflesse, che ci accingiamo qui a proporre qualche considerazione. Tra le reazioni istantanee provocate dalla notizia, è possibile individuare due impulsi che sembrano opposti e speculari rispetto al modo di leggerla. Tuttavia, avendo in comune l’apprezzamento per tale gesto, persino un certo godimento connesso con la sensazione di avere partecipato comunque a un rituale liberatorio, le due reazioni potrebbero essere le due facce della stessa medaglia.
Il primo impulso, la frase pensata senza essere pronunciata, il retropensiero suscitato dalla notizia può essere enunciato in questi termini: “Questa non è arte, ed è andata a finire nel posto che meritava: la spazzatura!”. Perché non se ne può più di tutto il ciarpame dell’arte contemporanea, dove chiunque può svegliarsi la mattina e autoproclamarsi “artista”. Rivogliamo Raffaello e la Cappella Sistina! Aridatece la Grande Bellezza! (In fondo, ci sono sempre Alberto Sordi e consorte in visita alla biennale di Venezia, ossia la forza pressante dell’uomo qualunque, dietro il premiato cliché della gloriosa italianità storico-artistica.) Ed ecco che, un giorno qualsiasi in una città qualsiasi, il miracolo si compie. Finalmente liberi, perché la donna delle pulizie ci ha tolto dai piedi questa immondizia fastidiosa spacciata per arte; ma anche redenti, perché con il suo gesto ci ha purgati della spiacevole sensazione di sentirci stupidi e cattivi. Infatti, nonostante tutta la nostra buona volontà, continuiamo a capirci poco o nulla di “arte contemporanea”, e questa cosa ci sentire inferiori e ci fa incazzare. Ci avvelena. Ci rende aggressivi. Non c’è dubbio, l’anonima donna delle pulizie è la nostra eroina. Non solo perché ha avuto il coraggio di fare ciò che noi stessi avremmo desiderato fare chissà quante volte ; ma anche perché, dando corpo ai nostri sogni inconfessabili, alle nostre pulsioni più segrete, ci ha liberato dei cattivi pensieri che ristagnano e inquinano la nostra anima. Incaricandosi di eseguire concretamente la condanna che non avremmo mai avuto nemmeno il coraggio di pronunciare, almeno ad alta voce, ci fa sentire di colpo più buoni. Salvi. Il boia ha impartito la sua benedizione.
Ma appunto, eroina di cosa? In che tipo di mitologia il suo gesto salvifico affonda? Quale immaginario riattiva? In altri termini, qual è l’attualità del desiderio che suscita? Che cosa rivela di noi stessi, questo diavolo di donna delle pulizie, facendo irruzione nella nostra vita quotidiana e chiedendoci “che volete”? In realtà, questo gesto fa riemergere un vecchio riflesso, un impulso con una lunga storia.
In un’intervista del 1975, Michel Foucault diceva: “Il nazismo non è stato inventato dai grandi folli erotici del XX secolo, ma dai piccolo-borghesi più sinistri, noiosi, disgustosi che possiamo immaginare [gente come Sordi e consorte nelle Vacanze intelligenti, per intenderci, cioè un po’ come tout le monde]. (…) I nazisti erano delle donne delle pulizie, nel senso peggiore del termine. Armati di strofinacci e scope, volevano purgare la società di tutto quello che consideravano come pus, polvere, immondizia: sifilitici, omosessuali, ebrei, gente dal sangue impuro, neri, folli. È l’infetto sogno piccolo-borghese della pulizia razziale che sottendeva il sogno nazista” (Foucault 1994, vol. II, pp. 820-21). Com’è noto, nella grande purga fascista è finita anche quella techne che, con la merda, intratteneva rapporti un po’ troppo intimi: l’arte e la scienza (pensiamo alla psicoanalisi) “degenerate”. Forse il fantasma sessuale è assente. Di certo è presente un fantasma igienista (ordine e pulizia), e la femme de ménage ne è il grigio, triviale, insuperabile emblema. Ma sarebbe più corretto parlare di un fantasma estetico-igienista, se è vero che nel cuore del fascismo c’è un’ossessione della forma, e che una delle caratteristiche fondamentali del razzismo è il rifiuto di tutto ciò che, opponendosi alla realizzazione della forma sognata, è per sempre bollato come informe.
Se poi tutto questo sembra troppo lontano, i più recenti impulsi alla tolleranza zero potranno rinfrescarci la memoria. I “graffiti e gli altri segni del disordine urbano”; gli “homeless e l’elemosina arrogante”; “la peste del lavavetri”: espressioni di W.-J. Bratton, ex-capo della polizia di New York, secondo il quale l’imperativo era ripulire le città da tutti gli inestetismi insalubri e caotici, ritenuti causa di tutti i mali (De Giorgi 2002, pp. 27-28). Le crociate contro il disordine, i parassiti, l’immondizia sono sempre pronte a dispiegare le loro vele e a salpare verso nuove terre promesse, presentandosi magari sotto la maschera eufemistica o progressista del decoro urbano. La signora Macchi non voleva certo essere un’eroina. Ma quando lo è diventata – perché ha rivelato i nostri fantasmi estetico-igienisti e, realizzandoli, ci ha assolto dalla loro ingombrante presenza – ha rispolverato le foto di altre e più tristemente note femmes de ménage: come quella di Adolf Eichmann, funzionario zelante dello sterminio.
All’estremo opposto, il secondo impulso suscitato dalla vicenda potrebbe essere enunciato in questi termini: “Il gesto della donna delle pulizie è rivoluzionario: lei è la vera artista!”. Secondo alcuni, a partire da Duchamp, si sarebbe assistito a un “divenire generico” dell’atto creativo che avrebbe fatto saltare il canone delle belle arti, rendendo confuse le frontiere, non solo tra le diverse forme d’arte, ma anche tra arte e non arte (Guercio 2010). Trattandosi di territori e di confini, è evidente che qui abbiamo a che fare con un problema di “sovranità”, quindi di legge, di autorità.
Nel caso del primo impulso, si esprimeva implicitamente una nostalgia del canone. L’eroismo della donna delle pulizie aveva a che fare con la capacità di rimettere ordine, di rimarcare la distinzione tra arte e spazzatura, di ristabilire la legge, di far regnare l’autorità. Il suo gesto incarnava un principio di conservazione o di restaurazione dell’ordine artistico perduto. Nel caso del secondo impulso, invece, si esprime la speranza di un sovvertimento radicale, di una rivoluzione che rovesci completamente l’ordine costituito e tutta la tradizione che lo accompagna e lo sostiene. La femme de ménage è sempre un’eroina, ma l’eroina appare adesso come una specie di sanculotta con il forcone in mano. Il suo gesto incarna un movimento irresistibile di deterritorializzazione, che libera l’arte da tutto quello che la limitava: le autorità statutarie, i confini stabiliti, i luoghi istituti, le forme istituzionalizzate. È la presa della Bastiglia: l’arte non appartiene più a vecchi o nuovi sovrani; essa appartiene direttamente al popolo, e si manifesta come un atto creativo immediato, anonimo, diffuso. La vera arte rinasce “oltre l’arte”, nell’al di là o nel rovescio immanente di quell’Arte con la maiuscola che ha ormai esaurito il suo ciclo storico.
L’impulso sembra andare nella direzione di una sorta di “arte diretta”, un po’ come oggi si parla, a proposito del web, di “democrazia diretta”. E siccome la questione dell’autorità e delle mediazioni istituzionali non riguarda solo l’arte, ma è invece un problema molto più ampio, anche questo impulso rivoluzionario merita di essere interrogato. Il limite dell’attuale discorso sulla crisi dell’autorità (della funzione paterna, della legge, dell’ordine simbolico ecc.) è che spesso interpreta questa crisi – apocalitticamente e semplicisticamente – come una fine. È più probabile invece che l’autorità, piuttosto che dissolversi, si sia trasformata (sebbene in modo iperbolico): cha siano cambiate le fonti della sua legittimazione e che siano cambiati di conseguenza anche i rituali grazie ai quali tale legittimazione, perpetuandosi, è riconosciuta socialmente e può consolidarsi attraverso delle credenze, attraverso una qualche forma di “fede”. Questa metamorfosi può rendere le forme tradizionali dell’autorità irriconoscibili, ma gli effetti di potere potrebbero essere persino rafforzati.
Un tempo, la massima rappresentazione dell’autorità (Re) trovava la sua legittimazione in una certa corrispondenza con il “modello” trascendente (Dio), e questa legittimazione era sancita da solenni rituali d’istituzione: i re di Francia e Inghilterra, al momento di salire al trono, non ricevevano, infatti, solo i segni del potere terreno (la corona) ma anche quelli del potere soprannaturale (erano unti da un siero venuto dal cielo, di origine divina). In questo modo, per vari secoli, essi hanno potuto esercitare un miracoloso potere taumaturgico (guarivano i malati di scrofola o di epilessia), potere che si esprimeva in rituali salvifici volti a rinsaldare la credenza nel carattere soprannaturale della loro autorità. Dopo un lungo processo di democratizzazione del principio di autorità, corrispondente a quello che potremmo definire il divenire-pop del potere nelle società di massa, oggi l’autorità sembra legittimarsi invece grazie a un’estrema “prossimità mimetica” con il modello banale o triviale dell’ordinary people, ossia con tutto quello che è sprovvisto per principio dei requisiti e dei segni della superiorità, dell’eccezionalità o, più in generale, della “distinzione”. Essendo dunque fondata sulla conformità con l’uomo comune come grado zero del modello (o come anti-modello per eccellenza), la legittimazione di qualsiasi forma di autorità passerà piuttosto attraverso la produzione e la reiterazione di rituali di destituzione.
In sostanza, alla base dell’autorità legittima e della credenza nella sua capacità salvifica, c’è oggi tutta una liturgia dello spossessamento e della spoliazione. E come la liturgia cattolica è diretta verso la formula eucaristica che la fonda e la sorregge, così tutta la liturgia populista insiste e si riassume nella seguente formula magica: “Non sono una persona speciale (non sono un superuomo, ma nemmeno, banalmente, un professionista – della politica, dell’arte, del sapere ecc.). Sono uno come voi!”. Un everyman. A questo essere comuni bisogna oggi credere, e perché la fede s’instauri, si propaghi e persista nel tempo, bisogna fornirne costantemente le “prove”. In altri termini, bisogna transustanziare senza sosta l’autorità “di diritto”, nel corpo comune e senza qualità che rende possibile e legittimo l’esercizio “di fatto” dell’autorità stessa. Ci accorgiamo, infatti, che l’affermazione dell’uomo comune come (paradossale) modello sociale, non ha fatto sparire il problema dell’autorità. Succede invece che, al cospetto di un’autorità ogni volta negata, destituita, spogliata, banalizzata, umiliata, vittimizzata fino al punto di essere irriconoscibile, siamo comunque portati a riconoscere la presenza di un potere miracoloso e salvifico, analogo a quello dei re taumaturghi del Medioevo. A quest’autorità che si legittima rinnegando continuamente se stessa, portiamo tutto il nostro rispetto e il nostro consenso. Uomo comune, venga il tuo regno e sia fatta la tua volontà.
Come si legittima per es. il nuovo leader di una chiesa la cui autorità è minata dagli scandali sessuali e dai traffici della sua banca offshore al centro di Roma? Lo fa avanzando nel nome di Francesco, icona della spoliazione e dell’umiltà, e moltiplicando le prove, ampiamente mediatizzate, del suo essere un uomo normale: usando un vecchio paio di scarpe comuni al posto di quelle griffate del predecessore; condividendo l’autobus con gli altri cardinali; pagando l’albergo; dicendo di trovare il proprio appartamento (sic!) in Vaticano un po’ troppo grande; facendosi ritrarre con persone comuni in foto che, attraverso instagram, dilagano nei social network; rinunciando alla papamobile a favore di utilitarie di seconda mano ecc. ecc.
Nell’epoca del reality, l’unica griffe riconosciuta e che paga è quella del real people, ossia il grado zero della distinzione (della griffe). In sostanza, l’unica griffe che oggi funziona si presenta come un potente ibrido di realtà e spettacolo: è la pellicola quasi trasparente con cui lo spettacolo, lasciandosi saturare dalla realtà, la avviluppa e la riproduce in modo industriale; la qual cosa rende la realtà stessa, anche o soprattutto quella più banale o triviale, “in sé e per sé” desiderabile: basti pensare alla seduzione esercitata da quegli zoo della normalità rappresentati da trasmissioni come “Il grande fratello” o “L’isola dei famosi” (ma ormai tutta la tv è un unico, ininterrotto zoo della banalità e della trivialità quotidiane).
Il caso delle scarpe del papa è sintomatico. C’è chi ha voluto ristabilire la verità, rivelando che si tratta in realtà di scarpe ortopediche, e lasciando così intendere che il loro uso non sarebbe dettato da una sorta di ostentazione alla rovescia, ma dal fatto che il papa soffre di sciatica. Resta che proprio su questo dettaglio i media si sono focalizzati, vedendovi la “prova” irrefutabile della normalità del papa: “Sì, è davvero una persona come noi!”. Le specie del papa, massima autorità della chiesa, si sono magicamente trasustanziate nel corpo dell’uomo comune e senza qualità. E su questa prova si è subito edificata una nuova fede, che non ha cessato di crescere nei primi mesi del suo ministero, facendo rapidamente lievitare i consensi: quelli diretti (personaggio dell’anno secondo Time che gli dedica una copertina intitolata The People’s Pope; copertina di Rolling Stone; pubblicazione di Il mio Papa. Il primo settimanale al mondo su papa Francesco; realizzazione del film-documentario Francesco da Buenos Aires), e quelli indiretti, nei confronti di una chiesa che sembrerebbe aver ormai superato la sua crisi. Il miracolo pop è compiuto, la santità può attendere.
E ancora, come si legittima il ceto politico che si pretende finalmente “nuovo”, e il cui avvento è invocato dalla gente come un’agognata promessa di salvezza? Lo fa presentandosi nello stile del neoeletto grillino, orgogliosamente giovane, senza storia e “dilettante”, il quale si reca a Montecitorio con la moglie spingendo il figlioletto nel passeggino, sempre sotto lo sguardo vigile delle telecamere. O come uno dei candidati sindaco alle ultime elezioni di Bari, che in un’intervista al Tg regionale si è rivolto in questi termini ai futuri elettori (citiamo a memoria): “Non sono un politico! Non ho nemmeno il curriculum, controllate… [Per questo] farò di Bari una delle città più importanti del mondo!”. L’aspetto grottesco di quest’affermazione non deve trarci in inganno, perché la potenza egemonica del dispositivo populista si manifesta proprio quando la sua liturgia può essere esercitata indifferentemente nelle cattedrali più grandi e prestigiose del mondo e in qualche sperduta chiesetta di provincia.
E per finire, come si legittima oggi qualsiasi forma di sperimentazione in ambito artistico o culturale? Ormai tutti lo sanno: l’avanguardia sarà popular o non sarà (Wu Ming 2009). Difficile allora non osservare come l’irruzione mediatica della femme de ménage, incarnazione di un’arte popolare immediata e diffusa, finisca per dare corpo anche ai più vividi fantasmi messianico-populisti.
Tra i due impulsi speculari suscitati da questa notizia, tra la merda smaltita e la trivialità sublimata, alternative rocciose che si fanno eco chiudendo l’orizzonte del possibile, è più che mai urgente forzare il blocco e trovare una via di fuga. La via di fuga è sempre una soluzione pratica e sperimentale, un sentiero che appare camminando. Ma siccome bisogna pur cominciare a camminare, e siccome per camminare bisogna immaginare un orizzonte, possiamo forse limitarci a ricordare, la storia insegna anche questo, che la polvere resiste, e che la merda, oltre a essere evacuata o inghiottita, può essere anche scagliata contro il potere in segno di sfida.
Bibliografia
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Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino 2009.